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La Casa Museo Belli a Mollia in Valsesia - Enrica Ballarè

Giornata di Studi | 6 giugno 2015 | Sala Milli Chegai | Teatro Iris – Dronero

 

Il Museo Mallé in ricordo di Milli Chegai
Case Museo in Piemonte

 

LA CASA DEI BELLI A MOLLIA IN VALSESIA
Enrica Ballarè

 

 

La casa di cui parleremo viene edificata nell’ultimo quarto del Settecento da Pietro Giacomo Belli, dopo annoso peregrinare nella Savoia, con i guadagni tratti dalle sue fortune minerarie (un filone d’oro scoperto e coltivato nella Valle Anzasca, a Pestarena, poi a lungo conteso con un capitano di Macugnaga che, ironia della sorte, aveva individuato lo stesso filone aurifero partendo dalla parte opposta!) e rappresenta quindi il segno tangibile di quelle fortune. Con la casa egli costruisce l’oratorio, a sua volta riccamente affrescato da Giovanni Avondo, e la fontana pubblica; il tutto prima dello scadere del secolo.
Da qui nasce il tema del “filantropo” (come “Casa del filantropo” casa Belli è stata pubblicata in una recente antologia valsesiana di edifici/personaggi significativi): in assenza di discendenti, Pietro Giacomo deciderà che la casa debba infatti ospitare le scuole elementari (1802) e quelle di disegno (1807); le sue ricchezze saranno destinate al sostentamento delle scuole (erette in Patronato) negli anni a venire; e così sarà fino agli anni Trenta del Novecento.
Diverse chiavi interpretative ci vengono suggerite a questo punto; d’altronde è proprio una prerogativa delle case museo quella di offrire grande varietà di interpretazione e di percorso.

 

Qui troviamo quindi una prima interpretazione: il contenuto sociale e storico della casa, fondata appunto dal filantropo; la sua scuola di disegno con gli insegnamenti di copia dal modello, geometria e architettura fornisce ai giovani di Mollia i rudimenti per svolgere i loro mestieri d’arte (intagliatori, ebanisti, decoratori, gessatori) in Francia e Svizzera. Ogni famiglia di Mollia è quindi rappresentata dalla casa Belli, perché in ogni famiglia si emigra e si svolgono attività simili fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Inoltre qui si apprende l’arte della decorazione architettonica che caratterizza le case valsesiane tra la fine del Settecento e i primi del Novecento, costituendo un tratto saliente del paesaggio costruito alpino (seppure con declinazioni diverse).

La tradizione artistica del Patronato riceverà poi ulteriore impulso dallo scultore Luigi Belli, professore all’Albertina (dopo essere stato allievo del Vela) e protagonista dei concorsi nazionali di questi anni; Luigi ne reggerà le sorti per un ventennio, fino alla sua morte nel ’19.

Da queste premesse prende spunto anche una seconda ipotesi interpretativa, peraltro legata strettamente alla prima: la casa degli emigranti e dei loro mestieri d’arte. Ciascuna di quelle famiglie di cui abbiamo detto sopra, proprio ciascuna, possiede memorie di questi emigranti. Per prima la stessa famiglia Belli, che ha vissuto per quasi tre secoli oscillando tra la Francia e la Valsesia (non a caso la madre di Luigi è francese, e tuttora un importante ramo della famiglia vive in Francia).

Una terza traccia viene dalle caratteristiche della casa Belli: autentico (e ormai raro!) esempio di architettura settecentesca valsesiana, conservatasi pressoché integra nell’impianto, negli elementi e negli spazi.
Nasceva proprio da questo dato la decisione, all’interno del progetto originario di recupero, di farne una casa museo del Settecento Valsesiano, con l’inserimento di arredi e suppellettili d’epoca. Non era difficile perseguire questo risultato, disponendo di due fonti determinanti: gli inventari ottocenteschi e la memoria dei discendenti (i quali hanno alienato l’intero contenuto originale della casa non più tardi di trent’anni fa, compreso l’ultimo lingotto d’oro con il marchio Belli, appartenente al povero fondatore; i suoi strumenti – bilancini, setacci, crogiuoli – sono invece stati donati dalla figlia dello scultore Luigi alle miniere di Pestarena, poi passate alla Union Carbide, con relativa perdita del tutto).

In questa direzione maturava anche – sulla scorta di alcune esperienze di ambientazione particolarmente accattivanti, prima fra tutte quella della londinese
Dennis Severs House, l’idea di dare alla casa il contesto evocativo con effetto del tipo “il padrone è appena uscito” (anche senza arrivare alle tracce di cibo sminuzzato o ai panni stesi). Una più approfondita riflessione però, supportata dal fatto che il signor Dennis Severs ha compiuto un’operazione decisamente artistica con stanze a tema (una sorta di period rooms assai poco filologiche), induceva a ritornare sulla traccia dell’autenticità, decisamente fine a se stessa.
Come dire: l’architettura parlante che si presenta da sé.


CONCLUSIONI: Casa della bellezza o Casa di una comunità?

Possiamo individuare per la nostra casa l’appartenenza a diverse classi tra quelle definite per valorizzare la ricchezza di queste tipologie e creare una base comune di riflessione interpretativa: casa della bellezza, casa a carattere etno - antropologico, casa voluta da una comunità; queste ultime peraltro con caratteristiche fortemente intrecciate tra loro. Per casa Belli, ai contenuti iniziali legati al personaggio (filantropo appunto, mediatore tra esperienza individuale e saperi tradizionali) si aggiungono, con il passare dei decenni e delle generazioni, quelli sociali e istituzionali che hanno un’ampia influenza.
Con un linguaggio proprio, la casa racconta aspetti del personaggio, della società valsesiana, delle esperienze artistiche condivise.
Si evidenzia perciò il forte senso di appartenenza che lega il territorio al contesto espresso dalla casa, di cui abbiamo velocemente tracciato i contorni: la casa Belli dunque come espressione del territorio e delle comunità della valle; il suo progetto, come elemento di valorizzazione di quel territorio.
Si definisce in tal senso un suo ruolo per il futuro.

Date queste considerazioni, se vogliamo rispettare questa come casa di una comunità (dato che lo è stata così a lungo), casa nella quale il territorio si identifica, bisogna fare i conti con le aspettative e i comportamenti di coloro i quali compongono detta comunità.
Primo fra tutti il desiderio, ahimè di riempire quei meravigliosi spazi vuoti: i mobili che alcuni sono propensi a donare andrebbero ad affollare casa Belli, con buona pace della sua architettura parlante. Come massimo risultato sarebbe possibile suggerire un dignitoso discorso cronologico – come in effetti prevedeva il progetto iniziale – atto a ricostruire una casa/museo del Settecento (tra Sette e Ottocento) valse siano.
Secondo: tanto più (e se) la casa verrà sentita come propria dagli abitanti, tanto più sarà obbligo tener conto della loro tendenza a veder realizzato qualcosa corrispondente all’idea di casa-museo o di museo che essi hanno elaborato nel corso della personale esperienza
Far leva sui dettagli dell’architettura e della decorazione significa adoperarsi al fine di combinarli in una visione fortemente estetizzante; a questo punto si pone un’ultima domanda: questa visione richiede di essere spiegata, illustrata da consistenti apparati didattici (relativi a materiali, tecnologie, caratteri dell’architettura, tradizioni costruttive e decorative…), o va suggerita da un rigoroso silenzio, affinché la casa si manifesti quale piccolo, semplice, scrigno dello spazio e della luce?
Confidare nel potere di suggestione dell’architettura e della storia: questo farei, piuttosto che gravarne la bellezza con le consuete pretese di ammaestramento.
Ci sono luoghi, come tutti sappiamo, la cui suggestione non ha bisogno di “istruzioni per l’uso”.

Sono convinta che la strada da percorrere sia dunque comunque quella del coinvolgimento emotivo e della suggestione; in ultima analisi, ritorno alla trovata di Dennis Severs. Con una precisazione, tuttavia, capace di fare la differenza: salviamo il dono dell’autenticità e rendiamolo il vero genius loci del progetto.

 

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